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Il coronavirus sta dicendo al mondo ciò che sappiamo da molti anni: se non proteggiamo biodiversità e natura, affronteremo ulteriori e peggiori minacce future

L’attuale pandemia di coronavirus SARS-CoV-2 offre lo spunto per un approfondimento sull’attuale rapporto tra uomo e natura a livello globale, e come questo non possa essere discusso in maniera disgiunta dagli aspetti sanitari legati all’emergenza di nuovi virus e patogeni con capacità pandemiche (1).

Un’analisi approfondita del WWF (1) illustra in modo dettagliato e con un approccio olistico come i cambiamenti ambientali legati all’attività dell’uomo favoriscano l’emergere di nuovi patogeni nelle popolazioni selvatiche e il loro passaggio all’uomo.
Molte delle cosiddette malattie emergenti - come Ebola, AIDS, SARS, MERS, Nipah virus, Hendravirus, influenza aviaria, influenza suina e oggi il nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2 definito in precedenza come CoVID-19) non sono eventi casuali, ma la conseguenza dell’impatto delle attività umane sugli ecosistemi naturali.

L’uomo con le proprie attività ha alterato in maniera significativa i tre quarti delle terre emerse e i due terzi degli oceani, modificando a tal punto il pianeta da determinare la nascita di una nuova epoca denominata “Antropocene”.

Negli ultimi decenni il passaggio nella popolazione umana di nuovi virus provenienti da serbatoi selvatici è sostenuto da una serie di fattori, tra cui la presenza di mercati in metropoli asiatiche o africane dove è praticato il commercio illegale o incontrollato di animali selvatici vivi come scimmie, pipistrelli, carne di serpente, scaglie di pangolini, e tanti altri rettili, mammiferi e uccelli e dei loro prodotti (carni e preparati per la medicina tradizionale).
Inoltre, la deforestazione di vaste aree di foresta vergine per la produzione intensiva di prodotti vegetali (ad esempio: olio di palma), o per fornire pascoli al bestiame in espansione, creano spesso i presupposti per un incontro ravvicinato tra l’uomo e gli animali selvatici. Si creano in questo modo pericolose opportunità per il contatto tra l’uomo e i microorganismi, ospiti abituali di animali selvatici, favorendo l’emergere di nuove zoonosi.


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Questa breve “review” sull’argomento vuole cercare di raccogliere le principali considerazioni e le opinioni di esperti in vari settori scientifici, economici e sociali per cercare di spiegare i legami tra le azioni dell’uomo sugli habitat naturali, i cambiamenti climatici e la biodiversità e le conseguenze che queste hanno portato sulla possibilità di insorgenza e diffusione di nuovi patogeni pericolosi per la salute pubblica e sui limiti socio-economici delle nostre società.

La comparsa di nuovi virus patogeni per l’uomo, precedentemente circolanti solo nel mondo animale, è un fenomeno ampiamente conosciuto come “spillover” (nell’uso corrente in ecologia e in epidemiologia “spillover” indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra).

Nel caso del SARS-CoV-2 l’origine del virus non è del tutto provata, anche se si ritiene che derivi da virus presenti in specie di chirotteri, sulla base di forte similitudine del genoma del SARS-CoV-2 con quello di due coronavirus isolati nel passato in pipistrelli (2).

È sconosciuto anche il reale momento nel quale il SARS-CoV-2 ha infettato l’uomo per la prima volta e se vi sia stato il coinvolgimento di altre specie animali.

In ogni caso, il grande mercato di animali di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei, dove per la prima volta, nel dicembre 2019, l’infezione da SARS-CoV-2 nell’uomo è stata rilevata, ha certamente rappresentato un importante momento di amplificazione dell’infezione nella popolazione umana, con l’instaurarsi di una efficiente trasmissione inter-umana del virus.

Se l’origine del SARS-CoV-2 è tutt’oggi incerta, vi è maggiore certezza però su quelli che sono i principali fattori di rischio per la diffusione all’uomo, legati al commercio, spesso illegale, di animali selvatici vivi e dei loro prodotti.

Tra tutte le malattie emergenti le zoonosi che trovano una origine in specie animali selvatiche potrebbero rappresentare in futuro la più consistente minaccia per la salute della popolazione mondiale (3). Il 75% delle malattie umane ad oggi conosciute derivano da animali e il 60% delle malattie emergenti sono trasmesse da animali selvatici. Le zoonosi causano ogni anno circa un miliardo di casi di malattia e milioni di morti ogni anno (4).

Le zoonosi emergenti sono quelle che più preoccupano l’umanità perché compaiono ad un ritmo che non ha precedenti nella nostra storia e perché hanno un impatto importante sulla salute umana, sui sistemi sociali e quelli economici. Queste zoonosi sono le più pericolose perché con miliardi di esseri umani che si assembrano, socializzano, viaggiano e lavorano, possono generare vere e proprie epidemie se non pandemie, favorite dalla crescente globalizzazione. Ad esempio, a fronte di circa 9.000 persone infette, la perdita economica dovuta dall’epidemia della SARS nel 2003 è costata all’economia globale circa tra i 30 e i 50 miliardi di dollari (1).

Secondo alcuni scienziati ci troviamo a fronteggiare una nuova situazione “epidemiologica” nella quale la globalizzazione, con i crescenti spostamenti di persone e merci, si accompagna alla più frequente insorgenza di nuove e vecchie malattie, ponendo i sistemi sanitari nazionali in estrema difficoltà nel contenere la diffusione di tali patogeni, sia a livello nazionale che internazionale.

Recenti ricerche hanno messo in relazione l’alterazione degli ecosistemi con l’insorgenza e la diffusione di agenti infettivi e di nuove zoonosi. Gli scienziati di tutto il mondo sono consapevoli che tra le cause della diffusione di malattie infettive emergenti, come Ebola, febbre emorragica di Marburg, SARS, MERS, febbre della Rift Valley, Zika e molte altre ancora, vi siano fattori importanti come la perdita di habitat naturali, la creazione di ambienti artificiali, la manipolazione e il commercio di animali selvatici e più in generale, la distruzione della biodiversità (5). Se da una parte la distruzione di habitat e di biodiversità crea condizioni favorevoli alla diffusione di zoonosi emergenti, dall’altra la creazione di habitat artificiali o più semplicemente di ambienti poveri di natura e con un’alta densità umana possono ulteriormente facilitarla. L’agricoltura intensiva, la deforestazione, la frammentazione degli habitat, l’utilizzo intensivo di farmaci e di pesticidi, l’urbanizzazione incontrollata delle aree forestali, ecc., sono tutti fattori in grado di perturbare in modo grave gli equilibri degli ecosistemi, delle popolazioni e degli individui in grado di contrastare i microrganismi responsabili di alcune malattie (6).

Di conseguenza, capire in modo migliore il funzionamento degli ecosistemi, e in particolare il loro ruolo nel difenderci dalla diffusione di malattie, è fondamentale per comprendere l’importanza di proteggerli e gestirli più adeguatamente, evitando di dover successivamente correre ai ripari, ricostruendo e ripristinando equilibri e processi ecologici cruciali per la salute dell’uomo. La crescita globale della popolazione umana, che oggi ha quasi raggiunto gli 7,7 miliardi, e la rapida crescita del consumo pro capite di beni e servizi, che insieme determinano la crescente impronta ecologica dell’umanità, stanno alterando la copertura del suolo del pianeta, i fiumi e gli oceani, il sistema climatico, i cicli biogeochimici e il funzionamento degli ecosistemi.

Il report del 2019 dell’IPBES (Intergovernamental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU) che è il più autorevole e recente rapporto sullo stato della biodiversità planetaria, evidenzia che il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati modificati in modo significativo. Inoltre, circa 1 milione di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione (7).

Inoltre, il Living Planet Report redatto dal WWF nel 2018, informa che in poco più di 40 anni il pianeta ha perso in media il 60% delle popolazioni di vertebrati (8).
I cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali, come le foreste tropicali, sono considerati responsabili di circa la metà delle zoonosi emergenti (9).
Come scrive David Quammen: “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie” (10).

Il commercio di specie selvatiche e il contatto diretto con parti di animali espone l’uomo al contatto con virus o altri agenti patogeni di cui quell’animale può essere un ospite. Il consumo di bushmeat è in drammatica crescita in molte parti del mondo. Il bushmeat viene consumato direttamente nelle foreste, ma anche trasportato nelle campagne e nelle città. In alcuni casi, quelle che sono considerate prelibatezze, come purtroppo la carne di scimmia, seguono vere e proprie rotte di commercio illegale anche tra paesi lontani.

Così come la caccia di animali selvatici e il consumo di bushmeat può porre dei seri rischi alla salute umana, altrettanto succede con l’assai diffuso commercio di fauna selvatica o di loro parti: il wildlife trafficking. Il commercio di fauna selvatica o di parti di specie animali e vegetali non è solo una delle cause principali di perdita di biodiversità (si pensi solo al commercio illegale di corno di rinoceronte o di scaglie di pangolino), ma può essere un importante meccanismo di diffusione di zoonosi.

Lungo le strade commerciali che collegano tra loro continenti e paesi lontani, viaggiano animali selvatici di ogni tipo, amplificando potenzialmente la diffusione di patogeni. Gli animali allevati o selvatici hanno un potenziale enorme di trasmettere virus. Possono infatti graffiare, defecare, urinare, tossire, contaminandosi tra loro o, in maniera più o meno rilevante, contaminare l’uomo. Per di più, la stretta vicinanza di specie diverse facilita la ricombinazione genetica tra virus diversi e con essa lo spillover tra le specie.

Le politiche ambientali devono promuovere piani idonei di sfruttamento dei terreni, ridurre la deforestazione e il contatto con specie animali potenzialmente rischiose. Gli ecosistemi hanno un ruolo insostituibile nel regolare le malattie, garantendo ai patogeni una dinamica biologica che riduce la probabilità di trasmissione all’uomo.

Per quanto ancora oggi l'obiettivo fondamentale e prioritario sia il mantenimento della vitalità dei sistemi naturali per conservare le loro capacità evolutive e le loro dinamiche, è altresì necessario procedere ad azioni di ripristino e restauro delle funzioni, dei processi e delle dinamiche di questi straordinari sistemi che la natura ha progettato in miliardi di anni di evoluzione della vita. Dobbiamo avviare vere e proprie opere di “ricostruzione” degli ecosistemi che abbiamo distrutto e degradato.

Consapevoli di questa difficile sfida le Nazioni unite hanno deciso di dedicare questo decennio proprio alla Ecosystem Restoration.  

“Tutti noi dipendiamo da ecosistemi sani per il cibo e l'energia, l'acqua e la biodiversità. Il loro continuo degrado contribuisce al cambiamento climatico e aumenta il rischio di gravi disastri ecologici. La diffusa perdita di funzionalità degli ecosistemi terrestri e acquatici sarà catastrofica per il nostro pianeta e rappresenterà un enorme passo indietro rispetto ai progressi compiuti verso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. È tempo di ricostruire ciò che è andato perduto” (11).

Il programma si basa su 17 obiettivi globali, concepiti come la prosecuzione ideale degli Obiettivi del millennio, approvati nel 2000 per essere portati a termine quest’anno (in realtà solo parte degli impegni è stata rispettata). I nuovi target sono stati declinati in 169 obiettivi specifici. Il primo è «eliminare la povertà in tutte le sue forme». Quindi, tra i punti chiave del programma figurano temi come la salute, l’accesso all’educazione, la riduzione delle disuguaglianze e la promozione delle donne, oltreché la lotta ai cambiamenti climatici. Si tratta di una promessa fatta dai dirigenti degli Stati alla popolazione del mondo intero.

Comprendere il funzionamento degli ecosistemi, e in particolare il ruolo che la biodiversità può avere nel ridurre la probabilità di diffusione delle malattie, è fondamentale per comprendere appieno come la protezione degli habitat naturali non sia solo un semplice obiettivo conservazionista, ma una vera e propria misura sanitaria globale. Gestire adeguatamente gli habitat e gli ecosistemi naturali diventa cruciale per garantire e preservare la salute dell’uomo.

“Dobbiamo imparare una volta per tutte che la pandemia da coronavirus non è qualcosa che ci è capitato, ma è il risultato delle cose che facciamo, di come dominiamo l’ambiente, delle scelte che prendiamo. Tutti ne siamo responsabili e che se vogliamo essere in grado di gestire future epidemie dovremo cambiare prospettiva e pensare soluzioni che tengano conto del fatto che viviamo in ecosistemi delicati di cui l’uomo fa parte e non è estraneo. La soluzione non è ovviamente uccidere i pipistrelli, ma lasciarli in pace, perché i nostri ecosistemi hanno bisogno di loro: sono importanti bioindicatori, essenziali per il mantenimento di determinati ecosistemi, come i tropici e i deserti, attraverso la dispersione dei semi e l’impollinazione” (10).

“Dobbiamo trovare il modo di vivere in equilibrio con la natura. I virus hanno convissuto con gli animali selvatici per millenni, la loro presenza non è niente di nuovo; quello che è cambiato è il modo in cui noi interagiamo con la fauna selvatica: crescita demografica, urbanizzazione, sfruttamento intensivo delle risorse naturali e distruzione dell’ambiente hanno portato l’uomo più che mai in stretto contatto con la fauna e reso più facile il salto di specie dei virus” (12).
La soluzione, dunque, sulla carta sembrerebbe semplice: “Per le zoonosi dobbiamo prevedere e controllare, non potremo mai eradicarle, salvo l’estinzione degli animali in cui questi patogeni albergano; il suggerimento più sensato è di lasciare questi animali nei loro habitat, preservandoli e non distruggendoli”, spiega il Professor Carlo Alberto Redi, zoologo dell'Università di Pavia e presidente del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi. Eppure l'applicazione pratica di questo concetto appare assai lontana: “Il nostro stile di vita non è più sostenibile dalla Terra: questa è la riflessione che la politica deve tradurre in azioni già da ora, per quando torneremo là fuori con consapevolezza, aprendo una vera discussione sulle cause delle crisi sanitarie ed ecologiche. Sono tanti i punti su cui lavorare: rispetto della biodiversità e dell’ambiente, regolamentazione del consumo di carni, educazione alimentare e controllo delle attività merceologiche e dei contesti igienici dei wet market (quei luoghi dove animali di specie molto diverse fra loro sono ammassati in attesa di essere venduti a scopo alimentare o «terapeutico»,) sono i più urgenti. Questa pandemia non solo ce la siamo procurata ma addirittura era ben prevista” (13).

Per controllare o prevenire le zoonosi si è affermato sempre più, a livello globale, l’importanza di seguire un approccio “One Health”, che riconosca quanto la salute degli esseri umani sia strettamente legata alla salute degli animali e dell’ambiente. Un concetto strategico, formalmentericonosciuto da tanti organismi delle Nazioni Unite dall’UNEP, all’UNDP, dalla OMS alla FAO, all’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (OIE), alla Commissione Europea, a Istituti di ricerca di tutto il mondo, ONG e altri enti. “One Health” identifica un concetto olistico di salute delle persone, degli animali, delle piante, degli ambienti di vita e lavoro e degli ecosistemi, promuovendo l’applicazione di un approccio multidisciplinare e collaborativo per affrontare i rischi potenziali o attivi che hanno origine dall’interfaccia tra ambiente di vita e lavoro, popolazioni animali ed ecosistemi.

Secondo questo approccio, le pandemie vanno affrontate con una strategia multidisciplinare, tenendo insieme epidemiologia, climatologia, salvaguardia delle specie, comunicazione del rischio. Inoltre, la lotta alle epidemie non sarà più di esclusiva responsabilità degli esperti della sanità pubblica, ma richiederà la collaborazione dei leader sia pubblici che privati, nonché l'aiuto della popolazione in generale” (12). 

Per rendere davvero efficace l’approccio “One Health”, pertanto, occorre stabilire una migliore e sistematica interazione tra i gruppi professionali, in particolare tra medici e veterinari, epidemiologi, ecologi ed esperti di fauna selvatica, ma anche sociologi, urbanisti, economisti, giuristi. Solo riconoscendo che la nostra salute e il nostro benessere sono strettamente collegati a quelli della natura che ci ospita, possiamo garantire la nostra specie dagli effetti più nefasti delle pandemie (1, 14).

La conservazione della biodiversità, il mantenimento degli habitat e i programmi sanitari dovranno essere integrati nei piani di sviluppo sostenibile, l’uno come parte imprescindibile dall’altro. Da questo punto di vista, le organizzazioni internazionali stanno già dando il buon esempio, e governi e autorità locali dovrebbero affrettarsi a seguirlo. Tra WHF (World Health Found), FAO (Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite) e World Organization for Animal Health è stato stipulato un quadro politico per la salute, chiamato “One Health”, che promuove nuove soluzioni che colleghino tutti i settori rilevanti per la salute e l'ambiente, in un quadro perfettamente inserito nell’obiettivo 17 dell’Agenda 2030 (15).

Un ultima riflessione dovrebbe riguardare il nostro stile di vita e i modelli di sviluppo che abbiamo perseguito sino ad oggi. Quando avremo superato questa fase di grave incertezza sanitaria, sociale ed economica, dovremmo cogliere l’opportunità per riflettere sul nostro modo di vivere, su come abbiamo sfruttato finora ogni risorsa su questo pianeta, e ripensare a modelli di produzione e di consumo più sostenibili. Le politiche ambientali dovranno essere messe in primo piano e dovranno essere prese decisioni che prevedano il risparmio del suolo, la conservazione del paesaggio e una “riconciliazione” tra attività agricola e conservazione della biodiversità (16).

Per raggiungere uno sviluppo socioeconomico sostenibile, la società dovrà perseguire una combinazione di progressi tecnologici e sostenibilità, coniugando il sempre più crescente fabbisogno di cibo ed energia con la necessità di preservare gli habitat naturali.

Il modello di sviluppo economico di molti Paesi industrializzati non può più continuare senza porsi il problema del “prezzo” ambientale e sanitario. Cambiamento climatico e rischio di pandemie sono due campanelli d’allarme che non possono più rimanere inascoltati, e le risposte dovranno necessariamente basarsi su azioni concrete di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi.


Bibliografia

  1. WWF Report 2020: Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi (PDF)
  2. Lu R, Zhao X, Li J, Niu P, Yang B, Wu H, Wang W, Song H, Huang B, Zhu N, Bi Y, Ma X, Zhan F, Wang L, Hu T, Zhou H, Hu Z, Zhou W, Zhao L, Chen J, Meng Y, Wang J, Lin Y, Yuan J, Xie Z, Ma J, Liu WJ, Wang D, Xu W, Holmes EC, Gao GF, Wu G, Chen W, Shi W, Tan W. 2020. Genomic characterization and epidemiology of 2019 novel coronavirus: implications for virus origins and receptor binding. Lancet 395:565–574. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)30251-8.
  3. Jones et al., 2008. Global trends in emerging infectious diseases. Nature, 451, doi:10.1038/nature06536
  4. Morse et al., 2012. Prediction and prevention of the next pandemic zoonosis. Lancet, 380, 1956-1965.  
  5. Di Marco et al., 2020. Sustainable development must account for pandemic risk. PNAS, 117 (8), 3888–3892, doi/10.1073/pnas.2001655117
  6.  Guide to the Millennium Assessment Report
  7. Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services. IPBES, 2019. https://ipbes.net/global-assessment
  8. WWF, 2018. Living Planet Report - 2018: Aiming Higher. Grooten and Almond (Eds). WWF, Gland, Switzerland
  9. Keesing et al., 2010. Impacts of biodiversity on the emergence and transmission of infectious diseases. Nature, 468, 647-665
  10. Quammen D., 2014. Spillover. L’evoluzione delle pandemie. Adelphi. 608 pp, ISBN 8845929299 
  11. https://www.decadeonrestoration.org/
  12. https://www.valigiablu.it/coronavirus-pandemia-cambiamento-climatico/ Valigia Blu Ilaria Di Silvestre
  13. Intervista al professor Carlo Alberto Redi, zoologo dell'Università di Pavia e presidente del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi: Una pandemia ampiamente prevista e procurata dal comportamento dell'uomo.
  14. WWF 2020: Biodiversità e Pandemie
  15. Mark Stafford-Smith et al. 2017.  Integration: the key to implementing the Sustainable Development Goals. Sustainability Science volume 12, pages 911–919
  16. Phalan B. et al., 2011.Reconciling Food Production and Biodiversity Conservation: Land Sharing and Land Sparing Compared. Science, September 2011. DOI: 10.1126/science.1208742

Francesca Dall'Acqua
Centro Operativo Veterinario per l'Epidemiologia, Programmazione, Informazione e Analisi del Rischio
Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e del Molise "G. Caporale"

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