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e-ISSN 1828-1427

 

Rivista trimestrale di Sanità Pubblica Veterinaria edita dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e del Molise G. Caporale'

A quarterly journal devoted to veterinary public health, veterinary science and medicine published by the Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise ‘G. Caporale’ in Teramo, Italy


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2010 - Volume 46 (4), Ottobre-Dicembre
   
 
Un testimone della medicina veterinaria  
La rivoluzione dell’igiene zootecnica
Giorgio Gagliardi
475-482
       

Le cose troppo lontane o troppo vicine, troppo grandi o piccole, troppo veloci o lente sfuggono ai sensi e, quindi, all’attenzione immediata dei contemporanei, mentre i posteri possono mettere a fuoco le vicende umane nella loro globalità, meglio di chi le ha viste direttamente nel loro evolversi.

Dopo il marasma della Grande Guerra, la Zootecnia italiana ripartì con grande volontà di recupero e altrettanto disordine sanitario portando ad una situazione epidemiologica molto complessa che si risolse, progressivamente, durante gli ultimi decenni del secolo scorso. All’inizio dell'ultima decade del secolo scorso il Paese si è trovato in una buona situazione zoosanitaria che oggi permette, soprattutto a chi ha vissuto il fenomeno nel suo complesso, di rivedere il passato con maggiore cognizione, esaminare cause ed effetti, trarre conclusioni epidemiologiche di fondamentale interesse.

Ruolo della malattia nel rapporto specie e ambiente

È noto cosa sia la malattia dal punto di vista medico ma non altrettanto sotto il profilo biologico. Nell’armonia della vita ha molta importanza il buon rapporto tra specie e ambiente. Quando il rapporto decade la Natura lo migliora mediante l’uso di diversi processi tra i quali anche la malattia. Ogni specie deve essere adatta all’ambiente che lo circonda. Quando l’ambiente si modifica, la popolazione del biotipo prevalente si contrae anche mediante la malattia, per lasciare posto al biotipo più adatto alle nuove condizioni. Anche quando è presente una popolazione troppo numerosa che degrada l’Ambiente, la malattia contribuisce a sfoltirne l’eccesso. Gli esempi sono tanti, tra questi quello degli Ungulati in soprannumero che alterano boschi e prati ma che ben presto vengono falcidiati da parassitosi e cecità. Per perfezionare il concetto può essere utile parlare, ad esempio, di rabbia silvestre che ha coinvolto direttamente l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie. La rabbia silvestre viene propagata dalla volpe mentre gli altri animali selvatici subiscono l’infezione senza diffonderla. E’ entrata dal confine austriaco verso la fine degli anni ‘70, divenendo nel tempo un freno alla moltiplicazione della volpe stessa, soprattutto, quando il numero di esemplari non viene limitato da animali competitivi ed è incentivato dalla dispersione dei rifiuti dell’alimentazione umana. L’intensificazione mirata della caccia, il censimento e l’identificazione del virus in centinaia di volpi uccise hanno permesso di tracciare una mappa geo-epidemiologica, che ha consentito di stabilire come la presenza di una volpe o più esemplari in un territorio di tre chilometri quadrati permetta la persistenza e diffusione della rabbia e come, a valori inferiori di animali per estensione del territorio, la patologia si arresti o scompaia, confermando il proprio ruolo di equilibratore ecologico.

Il concetto espresso deve essere trasferito anche in Zootecnia in cui l’ambiente è solo in parte naturale a causa della preponderante dipendenza dall’Uomo. In questo ambito le prove sono numerosissime, ad esempio, la scelta di allevare bovini da carne francesi con apparato polmonare di dimensioni ridotte che ha indotto la modifica del ricovero, ovvero dell’ambiente, per aumentare quanto più possibile il ricambio d’aria. Anche la sostituzione del bovino con lo zebù, vista l’incapacità di modificare l’ambiente dei Tropici, e la selezione di vacche con 4 quarti mammari di eguale capacità, non potendo rinunciare alla mungitrice meccanica, sono esempi che inducono una riflessione sull’interazione specie-ambiente con la relativa implicazione in Zooiatria.

L’evoluzione dell’igiene zootecnica

Dopo il marasma bellico la popolazione italiana fu coinvolta dalla grande voglia di fare e produrre (“miracolo economico”), tutti i settori risentirono positivamente di questa spinta propulsiva, compresa la Zootecnia. Fu in questo periodo che cominciò la “rivoluzione epizoologica”. Le rivoluzioni possono sorgere in breve tempo ma la storia ci insegna che hanno radici lunghe e profonde nel passato.

Andando a ritroso nel tempo è facile constatare come le due Medicine, quella umana e quella animale, pur progredendo, rimasero fino alla meta del XIX secolo avvolte dalla nuvola delle ipotesi incerte. La svolta fondamentale si registrò proprio durante l’evoluzione dell’Era pasteuriana (1865-1940) che portò all’insegnamento della Microbiologia nelle Università e alla comparsa dei primi laboratori nel territorio. Si può dire che tutta la prima metà del 1900 fu caratterizzata da un enorme fermento sulla conoscenza delle malattie trasmissibili. Dalla Microbiologia all’Immunologia il passo risultò breve e consequenziale, si aprì la grande speranza generata dalla vaccinazione (e dalla sieroterapia) che, per l’entusiasmo, sembrò la prevenzione di tutte le malattie trasmissibili.

I neofiti pasteuriani dimostrarono molto entusiasmo ma, a quei tempi, i risultati zooiatrici furono modesti poiché alla ridotta esperienza e ai finanziamenti asfittici si aggiunsero la solita resistenza al nuovo e le conseguenze di un peso zootecnico inusitato rispetto allo stesso territorio. In realtà, lo scenario agreste, ancora di tipo georgico come eredità dei secoli antecedenti, fu caratterizzato da buoi aggiogati all’aratro, vite maritata all’olmo, poche e rudimentali macchine agricole, bestiame di genetica antica, mentalità e condizioni contadine arcaiche, Veterinaria dedicata prevalentemente al cavallo. Nonostante questa condizione, la cultura era rivolta verso il futuro che, in quell’epoca, coincise con l’immediato dopoguerra .

Con la fine del conflitto, la popolazione assunse due connotati prevalenti: la grande voglia di ricominciare e, dopo tanta sofferenza e sacrifici, la necessità di stare meglio e imbandire la tavola. Nei periodi pre e post-bellico, dal consumo approssimativo di 25 chilogrammi di carne procapite/anno, in poco più di 30 anni, si passò a 80 chilogrammi. Dal confronto di queste cifre è facile dedurre l’enorme pressione esercitata dal “mercato” sulla Zootecnia. Questo settore partì impetuosamente ed in modo disordinato riempiendo stalle e recessi, coinvolgendo servizi esterni come mercati settimanali, piccoli macelli, fiere di tutte le dimensioni, stazioni di monta, mediatori e commercianti e, in seguito, allevamenti industriali e grandi macelli. L’insieme di tutte queste attività rappresentò uno sforzo produttivo mirabile ma nello stesso tempo la formazione di una nuova popolazione microbica con presenza di agenti patogeni e opportunisti. In quei tempi la Zootecnia aveva aumentato molto la produzione ma poco la coscienza epidemiologica. Era iniziata la “rivoluzione epizoologica” partendo da condizioni sanitarie pessime. E’ noto che le rivoluzioni partono in modo caotico ma con il tempo si autocorreggono assumendo forme e finalità sempre più definite. Le radici culturali alla base di questa rivoluzione sono riconducibili alla prima metà del secolo scorso anche se condizionate negativamente dal conflitto.

Poco dopo la guerra, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie era da considerare uno dei posti di osservazione epidemiologica più importanti del Paese. Negli anni ‘50, i veterinari dell’Istituto ispezionavano focolai di afta, peste suina, mal rosso, malattia di Newcastle, colibacillosi, brucellosi e altri focolai meno frequenti come quelli di leptospirosi, delle malattie di Teschen e Aujeszky ecc… Con l’aiuto del laboratorio si riusciva quasi sempre a riconoscere gli agenti patogeni ma spesso i tempi di risposta erano troppo lunghi e i mezzi modesti per eliminare gli agenti di malattia, si salvava comunque il salvabile riducendo il decorso e la dimensione del focolaio .

Negli anni ‘50 si accesero due luci di speranza: gli antibiotici e le vaccinazioni.

Gli antibiotici

Di poco ausilio per le malattie trasmissibili di natura virale, gli antibiotici sono serviti a smorzare, in quel contesto, solo alcune malattie batteriche come, ad esempio, il mal rosso ma sono diventati presidi indispensabili per la chirurgia e la clinica dei piccoli animali e di quelli di pregio. Utilizzati in laboratorio per le colture cellulari e la conservazione dei tessuti, gli antibiotici non hanno influito direttamente sul decorso della “rivoluzione epizoologica”.

Le vaccinazioni

Le vaccinazioni hanno avuto grande importanza per la salute di uomini e animali. Per la Medicina umana sono stati realizzati circa una ventina di vaccini, attualmente ridotti ad un terzo. Anche in Veterinaria ne sono stati impiegati molti, in seguito abbandonati in quanto con la diagnosi moderna di laboratorio, certa e immediata per ragioni di commercio internazionale di dubbia validità ed eticità, è risultato più conveniente effettuare la distruzione del focolaio per sanare il territorio anziché salvare l’allevamento. In questo periodo post-bellico la vaccinazione è stata una profilassi sensazionale in piena era pasteuriana quando le grandi epidemie erano molto diffuse, gli agenti responsabili mal rilevabili e le nozioni epidemiologiche incerte. In Veterinaria, dopo l’ultima Grande Guerra e fino alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, la vaccinazione fu una pratica molto diffusa, rivolta soprattutto contro l’afta e la peste suina. Fu un’operazione “selvaggia” per dispersione del virus sia durante la preparazione del vaccino sia durante l’applicazione, anche se bisogna evidenziare come, in quei tempi, i virus convivevano frequentemente con i loro ospiti, soprattutto, se immunoprotetti. In altre parole la vaccinazione era il minor male tra focolai in atto, sopiti e in corso di accensione.

Negli anni ‘60 le vaccinazioni migliorarono per quanto riguarda l’innocuità del vaccino. I focolai diminuirono ma non scomparvero. Dietro la barriera anticorpale, infatti, si nascondevano agenti patogeni impotenti ma in attesa della loro opportunità che si presentava soprattutto con fiere, mercati e importazioni.

Negli anni ‘70 venne applicata la vaccinazione obbligatoria contro l'afta epizootica, la peste suina classica e la rabbia che ridusse drasticamente le opportunità del microrganismo responsabile di uscire dalla gabbia anticorpale. Fu un notevole successo anche se in piccola parte ridotto dalle importazioni che, tra l’altro, potevano introdurre nuove varianti del virus. Alla fine però le vaccinazioni si rivelarono decisive per eradicare i virus dell'afta, della rabbia e delle pesti suine dal Paese.

I 3 pilastri moderni contro le grandi epizoozie

Negli anni ’80 e ‘90 coincisero 3 fenomeni che diedero una svolta decisiva al miglioramento della Sanità:

  • trasformazione del Servizio Veterinario;
  • abolizione delle vaccinazioni associata all’abbattimento coatto (stamping out);
  • cambiamento spontaneo dell’ambiente agrosociale.

Servizio veterinario

Prima del conflitto vigeva da tempo il Servizio Veterinario basato sul veterinario condotto che ricopriva tutte le funzioni rivolte alla Sanità animale e all’Igiene degli alimenti di origine animale (grandi macelli a parte). Il veterinario condotto rispondeva del servizio al veterinario provinciale dipendente dalla Direzione Generale dei Servizi Veterinari. Il Servizio Veterinario poteva considerarsi soddisfacente sia per la situazione che per la mentalità di quel tempo in cui la cura era prevalente sulla prevenzione e l’intuito clinico su quello epidemiologico.

Nel 1967 fu nominato a capo del Servizio Generale dei Servizi Veterinari Luigino Bellani uomo di cultura e di inclinazione manageriale che diede una svolta determinante al Servizio Veterinario del Paese. Seguendo i criteri moderni dell’Epidemiologia e dell’Igiene degli alimenti e dell’ambiente, Bellani trasferì l’affidamento del Servizio da una figura professionale, con un ruolo omnicomprensivo, ad una squadra di specialisti, secondo un criterio ormai ampiamente adottato dalla Medicina umana. Il Servizio Veterinario riformato divenne praticamente operativo nel 1983. Bellani avrebbe voluto che restasse alle dipendenza dello Stato poiché l’epidemiologia non riconosce confini all’interno di un Paese ma, in clima di decentramento, come in quel periodo, si sarebbe accontentato della dipendenza diretta degli Istituti Zooprofilattici, strumenti orientativi e tecnologici. Purtroppo, la politica radicata agli alvei elettorali periferici non lo concesse. Restò allo Stato l’ideazione e il controllo dei grandi piani di profilassi, confini e rapporti internazionali e la mal precisata rete di collegamento con le Regioni, queste ultime inserite, con poca chiarezza, nell’organizzazione piramidale del Servizio Veterinario Nazionale.

Il Servizio Veterinario periferico (Unità Sanitaria Locale - USL), negli anni 90 si occupa di Epidemiologia, del controllo degli alimenti di origine animale, di Igiene zootecnica. Il Servizio è collegato agli allevatori e all’Industria alimentare in cui si registra la presenza di operatori privati con una coscienza epidemiologica e igienica determinante per la collaborazione con il Servizio pubblico. Gli episodi di “mucca pazza” e “influenza aviaria”, rimasti sotto l’ineccepibile controllo fino alla drastica diminuzione dei casi testimoniano l’efficienza del Servizio. Al contrario non è sembrato soddisfacente l’intervento pubblico nell’area dell’Igiene zootecnica che, fortunosamente, si è avvalsa della cura degli allevatori, soprattutto, dei grandi allevamenti.

Stando ai fatti, questo tipo di organizzazione sanitaria ha fatto registrare un buon controllo epidemiologico e un’ottima sorveglianza sull’igiene degli alimenti di origine animale.

Abolizione della vaccinazione e stamping out

I due più sensazionali prodotti dell’era pasteuriana sono stati l’identificazione degli agenti patogeni e la vaccinazione. A fronte di grandi meriti la vaccinazione ha avuto alcuni inconvenienti.

Il vaccino preparato con virus morto, purtroppo, può conservare unità vive che possono aggredire l’organismo vaccinato prima dell’immunità oppure passare ad un altro ospite recettivo. Ulteriore inconveniente, non trascurabile, è la fuga del virus patogeno dal laboratorio.

I vaccini “vivi” vengono preparati con ceppi attenuati che eccezionalmente possono riprendere la virulenza, eccezion fatta per alcuni vaccini “supercollaudati” che vengono tutt’ora utilizzati nell’una e nell’altra Medicina.

A parte gli inconvenienti citati, il lato più negativo della vaccinazione in Veterinaria sta nella schermatura anticorpale vaccinale che maschera i virus selvaggi entrati prima o dopo la vaccinazione. Questi virus, alla prima opportunità, possono aggredire gli animali non protetti che numericamente possono essere anche molti, soprattutto quando il ciclo riproduttivo della specie allevata è breve. Considerato il grande dispendio di denaro e di lavoro per la vaccinazione, conviene a volte risanare il territorio anziché proteggere la popolazione. Risanare il territorio dagli agenti patogeni richiede diagnosi di laboratorio certe e rapide quando si tratta di identificare focolai sospetti, e diagnosi certe, agevoli e di poco costo quando si tratta di identificare il singolo portatore come nel risanamento da brucellosi, tubercolosi, ecc… .

A differenza della Medicina umana, in Veterinaria, la necessità di effettuare la vaccinazione è un problema di convenienza. Quest’ultima facilmente calcolabile mediante il rapporto costo/beneficio. Ad esempio, la protezione dalla rabbia silvestre, legata a territori circoscritti, richiede lo sfoltimento delle volpi che è un azione onerosa e insicura, di conseguenza, in territori invasi o minacciati conviene sicuramente effettuare la vaccinazione. L’afta, invece, come altre patologie ad altissima diffusione in tutti i sensi, richiede l’immediata distruzione del focolaio come misura più efficace ed economica.

La distruzione del focolaio è una misura abbastanza recente (anni 70) che, per ottenere beneficio, richiede diagnosi di laboratorio certe e rapide e un’ottima organizzazione sanitaria. Gli anglosassoni, favoriti dalla posizione geografica, sono stati i primi ad applicare la distruzione del focolaio. Il loro termine: stamping out indica, infatti, la distruzione sul posto, mediante il fuoco (combustione), di animali dell’allevamento sani e ammalati e di materiale mobile, azioni associate ad abbondanti disinfezioni. Queste misure vanno applicate dal Servizio Veterinario che ha il compito di allertare il territorio circostante e informare Stato e Paesi limitrofi. In parallelo a queste misure inizia l’indagine epidemiologica per svelare origine e percorsi del virus ancora mascherato e i suoi ipotetici movimenti irradiati dal focolaio. Da non dimenticare gli allevatori coinvolti, determinanti nella strategia dello spegnimento del focolaio, che vanno indennizzati adeguatamente e nel più breve tempo possibile.

Lo stamping out ebbe inizio quando era in vigore la vaccinazione obbligatoria contro afta e peste suina: la vaccinazione diradò i focolai e lo stamping out li spense. L’abbinamento ridusse al minimo il numero dei focolai per cui, in seguito (anni ‘80), si proseguì con il solo abbattimento per liberare il territorio dei portatori silenti. In antecedenza (inizio anni ‘70) entrò nel Paese la peste suina africana. Questa patologia fu risolta in pochi anni, almeno nei territori della penisola, avvalendosi di diagnosi lampo certe e stamping out dimostrando la validità del sistema e dell’organizzazione.

Altre malattie (di solito batteriche) a lenta propagazione vengono risolte con l’eliminazione del singolo portatore, individuato con la ricerca anticorpale indirizzata a ogni individuo della popolazione. In tal modo sono state eliminate le tubercolosi e le brucellosi bovine da tutto il territorio nazionale tranne la brucellosi ovi-bufalina al sud per i motivi socio-ambientali ben noti.

Attualmente, in Italia, ci si può vantare di avere un Servizio Veterinario moderno ed efficiente, dotato di laboratori tecnologicamente e culturalmente avanzati, e una situazione zoosanitaria tranquilla, anzi molto soddisfacente se confrontata con quella di 40 anni fa.

Cambiamento dell’ambiente agro-sociale

Il Darwinismo afferma che la specie deve essere adatta all’ambiente sia per criteri di quantità che qualità. In caso contrario la Natura interviene con molteplici fattori che riportano la specie in armonia con l’insieme circostante. Poco dopo la guerra la struttura dell’ambiente agro-sociale era antica e, nello stesso tempo, impegnata in modo gravoso a far fronte ad una popolazione italiana quasi numericamente raddoppiata dall’inizio del 1900. Terminato il conflitto si registrò il boom del consumo degli alimenti di origine animale e, di conseguenza, un ulteriore carico zootecnico con il peggioramento del quadro zoosanitario. Dopo gli anni ‘50, tuttavia, il settore dell’Industria crebbe impetuosamente provocando la forte emigrazione dalle campagne sovrappopolate. Gli agricoltori che nel frattempo avevano migliorato la loro cultura, vissero con sollievo lo svuotamento demografico che permetteva più spazio ai nuovi criteri tecnologici e zoosanitari. Anche per questo fu spazzata via, se pur lentamente, la fitta rete dei piccoli allevamenti contigui. Si registrò la polverizzazione dei servizi e dei commerci, questi ultimi opportunità ideale per la diffusione degli agenti patogeni. Dalla fine degli anni 60 lo scenario agro-sociale cambiò sostanzialmente per due decenni, in seguito lo sviluppo fece registrare il ritmo lento dettato dal perfezionamento. Da numerosissimi piccoli e contigui allevamenti si passò a pochi ed estesi allevamenti distanziati, condotti secondo i criteri moderni della tecnica e della sanità. L’evoluzione zootecnica fa registrare la scelta dell’allevamento a ciclo chiuso che, attualmente, rappresenta la soluzione zoosanitaria più idonea. Questi allevamenti all’avanguardia, con l’esempio, inducono i restanti a migliorarsi, determinando una situazione abbastanza soddisfacente, soprattutto, per quanto riguarda la cultura e la coscienza sanitaria degli allevatori. Questi due ultimi aspetti, stimolati anche dal Servizio Veterinario, hanno spazzato via i servizi esterni come piccoli macelli, fiere, monte pubbliche e piccoli commerci indirizzati da intermediari, che nel loro insieme hanno rappresentato il più grande ostacolo alla bonifica sanitaria del territorio.

Come ultima conquista è d’obbligo citare le così dette filiere produttive, create di solito intorno ai mangimifici, alle quali è associabile il momento economicamente più importante dell’intero ciclo dalla produzione al consumo. Queste filiere, dotate di un centro sanitario, dispongono di laboratori specializzati che impostano l’organizzazione secondo criteri epidemiologici e controlli successivi che nel loro insieme completano l’operatività del piccolo allevatore associato.

L’alleggerimento della popolazione rurale emigrata verso l’Industria ha facilitato l’impianto dell’allevamento industriale che ha determinato la diminuzione del prezzo del prodotto al consumo. Questa diminuzione ha fatto sparire quasi del tutto i piccoli allevamenti onerosi e rischiosi per la sanità del territorio. Se a questa trasformazione si aggiunge il miglioramento del Servizio Veterinario è possibile affermare che questo insieme rappresenta la condizione ambientale più adatta all’animale zootecnico. Questa riflessione dimostra, ancora una volta, il principio che in Natura la specie deve adattarsi all’ambiente o viceversa. Questo principio fondamentale del Darwinismo, adottato spesso dall’Igiene zootecnica, può sembrare scontato ma è doveroso far notare come fosse del tutto ignorato un paio di secoli fa.

Igiene zootecnica

Le malattie contagiose hanno interessato in maniera rilevante gli allevamenti per gran parte del secolo scorso. Negli anni 80 - 90, invece, nella stalla con vacche da latte sono prevalse malattie non contagiose sia perché il territorio aveva subito una sorta di bonifica dagli agenti patogeni più temibili, sia perché geneticamente si allevavano animali meno rustici e più produttivi ma richiedenti condizioni igieniche più severe. Per l’Igiene zootecnica bisogna dimenticare il senso usuale che si dà al binomio per conferirle il significato più ampio di ricerca del benessere, quindi, adattamento dell’ambiente alle necessità della specie, a sua volta sottoposta alle esigenze produttive dell’allevatore. Poiché l’animale zootecnico dipende completamente dalle accresciute esigenze dell’allevatore, il benessere animale dipende, di conseguenza, dal grado di cultura biologica, tecnica, sanitaria di chi gestisce l’allevamento. Il benessere risulta tanto più a rischio quanto più alta è la spinta genetica alle produzioni, pertanto, la cultura dell’allevatore dovrà elevarsi in proporzione ai suoi progetti produttivi, evenienza che nella realtà, spesso, non si realizza. Quest’ultimo aspetto ha portato il Servizio Veterinario a occuparsi di Igiene zootecnica. Nel tempo, purtroppo, il servizio non si è dimostrato sempre all’altezza di questo compito, in realtà molto difficile, anche per la presenza nelle università dell’Igiene zootecnica come insegnamento facoltativo o, addirittura, assente.

Gli animali da compagnia

Una volta il gatto era presente in casa per la caccia ai topi mentre i cani venivano adottati dall’uomo per guardia, caccia, gestione delle greggi ecc, stabilendo un rapporto di utilità. Oggi prevale il rapporto di compagnia per svariati motivi: tempo libero, migliori condizioni di vita, rapporti intersociali, moda, esibizione, ecc. In merito si dovrebbe aggiungere per vera amicizia ma questa richiede intelligenza nell’animale che è poco frequente poiché di solito gli accoppiamenti vengono programmati con ben altre finalità. E’ parere comune che i bastardini siano più intelligenti, convinzione probabilmente vera visto che il loro patrimonio genetico è più diversificato. All’origine l’intelligenza era una dote necessaria per la sopravvivenza (selezione naturale) e, in seguito, per il lavoro richiesto dall’uomo oggi, invece, a questi animali viene richiesto nient’altro che fedeltà e vivacità. Nella società del benessere questi animali vengono molto accuditi, questa abitudine ha riempito gli ambulatori veterinari che hanno fatto sparire le grandi epidemie con le vaccinazioni e le parassitosi con farmaci specifici. Nel contempo sono sorte altre malattie dovute al ridotto movimento, intossicazioni e, soprattutto, le conseguenze determinate dall’impoverimento genetico. Quando una razza (o specie) scende al di sotto di un certo livello demografico si registra l’abbassamento del patrimonio genetico e, di conseguenza, le doti originali salute compresa. Se poi il programma riproduttivo mira al miglioramento di una sola dote, trascurando le altre, quelle rimanenti peggiorano. Se per raggiungere lo scopo ricorriamo a pochi stalloni i geni risulteranno ancora meno diversificati a discapito dell’insieme delle doti. In altre parole, quando l’uomo vuole sostituire la Natura nei programmi riproduttivi deve avere una visione omnicomprensiva della struttura psicofisica della razza senza far prevalere mode o altri esigenze.

Oggi si parla molto di zoofilia anche con irresponsabilità, ad esempio, ci si trova con branchi di cani vaganti inselvatichiti a causa della legislazione che proibisce l’eliminazione dei randagi. In merito, le conseguenze negative determinate sono facilmente intuibili e visibili. Ugualmente intuibili sono le conseguenze del consentito allevamento e della gestione dei cani ad alta aggressività che generano incidenti e una psicosi generale che si riversa negativamente sulla comunità cinofila. La zoofilia, sentimento indubbiamente positivo, se presa con superficialità finisce con il determinare, quasi sempre, sacrifici per gli animali.

Conclusioni

Nella seconda metà del secolo scorso si sono verificati in Zootecnia due fenomeni epidemiologici straordinari e opposti tra loro. All’inizio del periodo, infatti, ci si è trovati in una situazione epidemica disastrosa mentre, in seguito, verso la fine del secolo la situazione si è notevolmente ridotta di intensità fino a raggiungere una condizione di accettabile normalità. Una vera rivoluzione da raccontare e interpretare. Dopo il marasma dell’ultima grande guerra i consumi alimentari salirono alle stelle gonfiando la zootecnia dotata di pochi mezzi, strutture e programmi con conseguenze epidemiologiche deleterie. In questo scenario la Veterinaria, nutrita della cultura pasteuriana durante la prima metà del secolo, preparò uomini e programmi per affrontare questa grande sfida sanitaria. Fu una dura competizione che durò circa 40 anni. La risalita venne favorita dal capovolgimento ambientale agro-sociale che, in poco più di un quarto di secolo, mutò dallo scenario georgico a quello sempre più moderno, favorito dalla decongestione demografica nelle campagne provocata dal richiamo dell’Industria in pieno sviluppo.

Oggi, con consapevolezza, si può affermare che la cultura sanitaria, biologica e tecnologica hanno rivoluzionato la situazione zoosanitaria del Paese che oggi si può considerare soddisfacente per quanto riguarda le malattie contagiose.

Il progresso induce a nuove sfide e a ulteriori obiettivi, si lavora per dare condizioni adeguate ad animali selezionati per produzioni, fino a qualche decennio fa, inimmaginabili. E’ iniziata una sfida tecnologica con criteri sanitari e biologici per offrire un ambiente conforme alle esigenze di biotipi molto produttivi a cui l’Uomo non intende rinunciare. Questa sfida coinvolge sicuramente l’Igiene zootecnica che dovrà essere impostata, nell’immediato futuro, con più impegno e professionalità, a cominciare dalle Facoltà di Veterinaria e di Scienze della produzione animale.


Siamo lieti di pubblicare un articolo di Giorgio Gagliardi che, come sa fare bene, ci presenta un quadro storico, ma ancora attuale, della medicina veterinaria del nostro Paese.

Chi, come chi scrive, ha avuto l’onore di essere suo allievo e soprattutto di diventare nel tempo suo amico, desidera ringraziare Giorgio Gagliardi per il contributo che ha voluto offrire alla nostra rivista: fra le vigne dove passa le sue attivissime giornate ha trovato il tempo di mettere sulla carta le sue esperienze, accompagnate da considerazioni che ad alcuni faranno rivivere momenti vissuti in un’epoca non sempre facile, ad altri daranno un quadro di come si è potuta costruire faticosamente una realtà medico veterinaria. Alcuni concetti sono ora scontati, primo fra tutti l’importanza fondamentale dell’epidemiologia, ma si deve al lavoro, alla passione, di ricercatori come Giorgio Gagliardi se si è arrivati a questo.

Giorgio Gagliardi, classe 1924, ha iniziato la sua attività nell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, con sede centrale a Padova, nel 1948, per poi esserne il Direttore dal 1969 al 1989.

Oltre ai meriti scientifici, alle pubblicazioni, alle battaglie condotte per far risaltare l’importanza della ricerca Medico Veterinaria, siamo felici di constatare che continua ad aver voglia di far conoscere a chi a quei tempi non c’era quel che maestri come lui hanno fatto e continuano a fare.

Carlo Turilli
Segreteria di redazione

 Testo integrale

     
 
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